Degli zombie e del sollievo

Nel mio passato non c’è Freddy Krueger né si trovano bambole assassine.
Nessun esorcismo, niente “phenomeni” strani.
Non ho mai aperto quella porta e venerdì 13 per me è un giorno come un altro.
Insomma: non sono mai stata un’amante delle pellicole horror. Non al momento “giusto”, almeno (l’adolescenza, la giovinezza, in compagnia…).
E certo non in senso stretto (ok, ho adorato «Shining» – è uno dei film più forti della storia – ma in questo caso prima e più di un horror trattasi di Cinema. O no? Stessa cosa dicasi per «Psycho», naturalmente, e molti altri).

Alcuni di quei film – quelli in odore di zolfo, per intenderci, incentrati su epiche battaglie combattute a spruzzi d’acqua santa – mi annoiavano: essendo cresciuta in una famiglia non particolarmente devota, al mio relativo interesse per l’incarnazione del Bene ha sempre fatto da contraltare una scarsa attrazione per le rappresentazioni del Male.

Altri, semplicemente, mi facevano realmente orrore e non avevo nessuna voglia di farmela addosso, né da sola né tantomeno in compagnia…

Eppure, “out of the blue”, negli ultimi anni gli zombie sono entrati prepotentemente nella mia via vita televisiva e ho sviluppato per le orde claudicanti e cannibali una vera e propria passione, da soddisfare compulsivamente consumando dosi massicce di espressioni del genere, dalla qualunque serie tv al più improbabile lungometraggio.

E questa dichiarazione per me equivale a un vero e proprio coming out (“ciao, mi chiamo Camilla e sono una zombista”): perché nei primi tempi questa dipendenza morbosa la vivevo come un’inclinazione abietta, di certo indegna di una signora di una certa età, soprattutto se con la pretesa d’avere un certo senso estetico…

Ora, non è che sia proprio fiera di spararmi una puntata dopo l’altra di «The walking dead», godendo settimanalmente fino all’ultima stilla di questo spettacolo del tutto privo di ironia. Né mi beo di essere in trepidante attesa della nuova stagione di «Z Nation» (che in tutta onestà è davvero, davvero una boiata pazzesca); per tacere di «Fear the walking dead»… Ma esistono tutto sommato perversioni peggiori perciò, tenendo anche conto che condivido questo mio problema psichiatrico con qualche milione di altri tossici sparsi nei cinque continenti, sto imparando a essere un po’ più indulgente con questa mia debolezza.

E poi, come tutti i grandi amori, anche la mia liaison con il fattore “Z” prima o poi sarebbe comunque venuta a galla. Quindi, ho pensato, tanto vale farne argomento di discussione – chissà mai che la terapia di gruppo possa aiutare a contenere l’addiction – e superare magari l’imbarazzo comprendendo perché i “morti viventi” piacciano tanto e come mai – lungi dallo spaventarmi come avrebbe fatto anni fa – la rappresentazione dell’infame esistenza di un manipolo di disperati costantemente in fuga da mandrie di succhiatori di cervelli mi rilassi infinitamente, tanto da conciliarmi il sonno.

Detto, fatto. Ho condotto la mia indagine… su Google.

"The Walking Dead", il fumetto

In rete, si sa, c’è di tutto.
E non avendo certo pretese da tesi di laura, né avendo io a disposizione un lustro da dedicare alla lettura, la mia survey è stata condotta in modo del tutto arbitrario (una mia collega d’ufficio chioserebbe definendola “a membro di segugio”).

Più o meno i paramentri fondamentali sono stati tre: uno, ho escluso le pagine web che non mi piacevano esteticamente (questo è quello più scientifico) e, due, ho ignorato gli articoli che si riferivano alle produzioni “zombie” semplicemente come “horror” e non come un genere a se stante. Infine, tre, mi sono data un’ora di tempo.

Sfoglia che ti sfoglia, scrolla che ti scrolla…

Alla fine dei 60 minuti di accurata ricerca, il mio prima aleatorio sentimento di devozione per le storie di cadaveri semoventi si è incarnato piuttosto bene nella spiegazione fornita da tal Douglas Rushkoff, che è brutto come il peccato, però ha un bel sito, e che è l’autore del libro  “Present Shock” (che ovviamente non ho letto, in linea con il mio approccio rigorosamente scientifico).

La sua interpretazione – niente di originale, ma che sento molto “mia” – è più o meno questa qui:

nel mondo iperconnesso di oggi le persone vivono imprigionate in un presente infinito, di cui non si riesce più a valutare la profondità; è una dimensione molto stressante, una realtà continua di cui non si rammenta l’inizio né si percepisce la fine e che per questo genera ansia.
Le serie tv e i film che raccontano di zombie e di scenari post apocalittici sono degli azzeratori di coscienza, una sorta di tasto “pausa”. Funzionano per molti come antidoto a questo particolare stress generazionale perché offrono un temporaneo rifugio in dimensioni alternative caratterizzate da una primitività tanto obbligata quanto consolatoria.

Semplificando:
c’è un tizio che ti insegue con tutta l’intenzione di mangiarti vivo: lui è cattivo (morto) tu sei buono (o, quantomeno, vivo) e gli spari (o gli spacchi la testa/gli infili un coltello nell’orecchio/lo schiacci con un bulldozer trovato sulla tua strada…).
Bon. Finito.
Niente interrogativi esistenziali.
Niente sensi di colpa (eddeché? tanto era già morto).
“Cosa fatta capo ha”.
Relax…

Insomma, io sposo la teoria secondo la quale c’è una giustificazione sociologica al fatto che le fiction a base di zombie – piccoli “trip”catartici a portata di telecomando – siano oggi così più gradite di un tempo (anche) ad adulti ben coltivati e magari pieni di (altri) interessi.
I meccanismi sui quali si reggono queste storie continuano a essere estremamente semplici – d’accordo, diciamo pure banali – ma nella sua semplicità la metafora parla anche a chi ha scavallato gli Anta: gente, ricordatevi che vivere è qualcosa di più che esistere, mangiare, muoversi nello spazio e fino a quando farete funzionare il cervello – se non vi omologherete, se non vi arrenderete all’indifferenza – resterete umani, resterete protagonisti.

Insomma, che sollievo: gli zombie sono altri!

«Noi siamo quelli che sopravvivono» (Cit.)

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