19 gennaio. Il mio Capodanno

Accadde oggi.
15 anni fa oggi, divenni madre per la prima volta
12 anni fa oggi, lo divenni per la seconda.
Il numero 19, già presente nella mia stessa data di nascita, da allora ha assunto per me un significato cabalistico, esoterico. Indizio nascosto dell’esistenza di un’altra dimensione impercettibile entro la quale, al di là delle coordinate spaziotemporali, scorre – o forse semplicemente “sta” – la mia vita.
E vogliamo parlare di gennaio?
Un mese freddo, un mese ancora così buio. Naturalmente alieno dalla mia natura estiva, dal mio bisogno di luce e colori.
Un mese che avevo sempre vissuto con un occhio chiuso, come fossi in letargo. Un mese che non ricordavo.
Del resto, a dispetto di un’età adulta ormai conclamata, prima che nascessero i miei bambini il “nuovo anno”, per me, cominciava ancora a settembre, come ai tempi della scuola. Con tutto il corollario di buoni propositi tipico delle vigilie e il lungo respiro da tirare prima di immergersi in profondità.
Da quando sono diventata madre, invece, ho un nuovo Capodanno, che non differisce di molto da quello ufficiale, dal momento che è slittato in avanti solo di qualche giorno. Diciannove, per l’esattezza.
Da allora, è questo per me il tempo dei bilanci – per lo più in rosso – e di quegli scricchiolanti buoni propositi che puntualmente si ripresentano alla mente senza che io abbia la minima idea di come perseguirli.
Allora, inspiro profondamente e immagino anno dopo anno di prendere nuovamente una grande rincorsa: per fare meglio, per essere all’altezza.
O almeno per azzeccarne una qualche volta.
Perché per la maggior parte del tempo ho l’impressione di non sapere ciò che faccio.
O meglio, so quello che faccio – in genere tento di farlo a ragion veduta, o almeno in coscienza -, ma è come se avessi sempre ben chiaro davanti a me un bersaglio e scoprissi puntualmente di avere una mira di merda.
In questi primi 15 anni, di fatto, ho disseminato il percorso della mia genitorialità di dardi andati persi, miseramente affossati nel terreno dopo una breve parabola dalla traiettoria incerta, o infilzati in qualche albero, staccionata e persino – temo – in qualche chiappa più o meno innocente.
E la cosa sconcertante è che non sono migliorata in questo sport, che pur pratico ormai da tre lustri.
No, perché i giudici cosmici della malora ogni volta che sali di categoria spostano il bersaglio più lontano. Maledetti. E tu sempre lì, a ricominciare da capo, per capirci qualcosa.
Ah, beh, ma con il secondo figlio sarà tutto più facile, direte voi.
Ah beh, mica è detto, rispondo io.
In primis, perché anche se quella distanza l’hai già coperta in passato, non è mica detto che al secondo giro il vento spiri nella stessa direzione (che quando si tratta di far andar dritta una freccia, anche il ponentino può diventare una tramontana bastarda).
In secundis, una volta che ti sei tarato su gittate più lunghe, ridurre il passo può risultare meno istintivo di quanto si potrebbe credere; tantopiù che, quando ci si divide fra diversi terreni di gara, la concentrazione può calare e qualche dettaglio, ahimè, sfuggire.
Eppure, ogni anno bisogna credere nelle proprie possibilità, puntare al podio, incoccare per prima la freccia fortunata, ma poi riempire la faretra di saette di ogni peso e lunghezza: frecce piumate, di legno, alluminio o carbonio, con punte da allenamento e punte da caccia. Pronti a tutto. Inspirare e scoccare. A ripetizione.
Che la maternità (forse anche la paternità, non so, non è il mio campo) a volte può ricordare una guerra. Contro le proprie insicurezze, contro la propria inadeguatezza, contro la paura che Loro soffrano.
Una guerra “santa”, che in quanto tale a volte ci rende ciechi e folli e ingiusti.
E, ammettiamolo, una guerra persa. Perché l’unica vera vittoria, per noi, sarebbe la Loro imperitura felicità.
Intendiamoci, i fondamentali non mi mancano: nutriti son nutriti, vestiti son vestiti, curati son curati. Amati lo sono. Tanto.
Compresi? Probabilmente non abbastanza. Non lo so. A volte no.
Mi comprendono? Poco. Forse per nulla.
Intorno a questi due ultimi punti, del resto, ruota buona parte della mia insoddisfazione e si concentrano i famosi buoni propositi: “comunicazione” è la prima voce nel mio personalissimo ordine del giorno.
Perché vorrei che sapessero che vengono prima di tutto. Vorrei saperglielo spiegare. Vorrei che per loro fosse scontato che l’unico intento è favorirli, proteggerli, spronarli. Vorrei convincerli che qualche bordata della vita, a darmi retta, potrebbero forse schivarla.
Ma anche come migliorare su questo fronte, per il momento, non lo so. Fino a ora l’ansia di farlo mi ha reso ancora più pedante ai loro occhi e la frustrazione di non riuscirci solo più rabbiosa e antipatica. Certe volte mi rendo conto di essere prigioniera della mia stessa ragnatela di dubbi, sentimenti, intuizioni e sconvolgimenti emotivi. E più mi divincolo, più mi impantano.
Ma l’immobilità non m’appartiene e in quel pantano continuo a dimenarmi.
Poi, puntuale, arriva il 19 gennaio, con il suo bagaglio di ricordi di terrore e gioia – gioia pura. Allora il timer si azzera e amore infinito e rabbia e vento (non un ponentino) mi scuotono.
E comincia tutto daccapo.
Dubito che quest’anno verrò colta da una salvifica illuminazione assurgendo repentinamente a una più saggia, pacata ed efficace condotta genitoriale. Ma, come si dice, sperare è lecito.
Nel frattempo, faccio del mio meglio e inspiro profondamente.

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