Informatica al femminile: fu il 1984 l’anno della sua svolta distopica

Come tante storie esemplari dimostrano, per esempio quelle di Grace Hopper, “The Queen of code”, Suor Mary Kenneth Keller, “Sorella Basic”, o delle celebri “Eniac girls” – per tacer del fatto che un paio di secoli fa fu proprio una donna, Ada Lovelace, a scrivere il primo software della storia – quella informatica è una lingua che per decenni si è declinata per lo più al femminile.

E allora cosa è successo?

Con simili premesse, come è mai possibile che oggi – in un momento storico caratterizzato da un lato da un’esponenziale crescita della domanda di sviluppatori e professionisti ICT e dall’altro dalla drammatica penuria di specialisti STEM – le donne rappresentino il fanalino di coda nel vivacissimo ma sottodimensionato mercato delle professioni informatiche?

Com’è possibile che da pioniere e genitrici a tutti gli effetti del coding si siano ridotte a rappresentare eccezioni nelle barbute schiere degli sviluppatori?

L’anno in cui cambiò tutto

Come sia possibile l’ha spiegato bene Clive Thompson, giornalista americano esperto proprio di informatica e tecnologia (a destra nella foto), in un articolo scritto nel 2019 per il New York Times Magazine: “The Secret History of Women in Coding”. Secondo Thompson, possiamo riconoscere con una certa esattezza il momento in cui le donne vennero espulse dalla storia della programmazione.

O comunque, se non “estromesse” – ipotizzando che nessuna regia occulta di genere abbia pianificato consapevolmente l’ennesimo handicap culturale ai danni della loro crescita sociale e personale (ipotesi che personalmente non mi convince completamente) – quantomeno “lasciate indietro”, “zavorrate pesantemente”, “azzoppate” rispetto alla possibilità di correre alla pari con i maschi sul terreno delle scienze informatiche.

Quel “momento” fu il 1984.

A metà degli anni ’70, spiega Thompson citando dati raccolti da uno studio condotto negli Stati Uniti, il numero di uomini e donne interessati a lavorare in ambito informatico come sviluppatori era pressoché uguale. È vero che inizialmente ai corsi universitari di scienze informatiche si iscrivevano più spesso i maschi (i maschi che dopo le superiori si iscrivevano all’università, del resto, erano in assoluto più numerosi delle femmine), ma nel giro di pochissimi anni il numero delle ragazze praticamente raddoppiò, tanto che nell’anno accademico 1983-84, le donne negli Stati Uniti rappresentavano quasi il 40% del totale dei laureati in informatica.

E poi? E poi basta. Il trend si è invertito. La percentuale è costantemente diminuita, fino a dimezzarsi intorno al 2010.

Perché? Com’è possibile che improvvisamente i maschietti abbiano ingranato una marcia in più, o comunque abbiano repentinamente acquisito maggiore determinazione nello scegliere quel percorso professionale e nell’affrontare la competizione in quell’ambito?

La domanda è interessante, perché i numeri, se analizzati senza contesto, suggerirebbero che l’interesse delle donne nei confronti del coding si sia di botto affievolito, nel giro di una manciata di semestri universitari.

Possibile? Ovviamente no.

L’avvento del PC e l’uscita di scena delle ragazze

Clive Thompson nel suo articolo spiega questo sensazionale e rapidissimo declino della presenza femminile nelle facoltà di informatica con la comparsa del personal computer, che iniziò a diffondersi proprio tra la fine degli anni ’70 e i primi ’80 e che ha di fatto selezionato per genere i futuri studenti di informatica.

Pensateci: prima che i computer facessero il loro ingresso nelle abitazioni, pressoché tutte le matricole delle facoltà di informatica non ne aveva mai toccato uno. Molti, probabilmente, nemmeno lo avevano mai visto dal vivo… Più o meno tutti gli studenti, maschi o femmine che fossero, partivano da zero. Avevano – o meglio, non avevano – le stesse competenze ed esperienze.

Ma nel momento in cui la prima generazione di pc, come il Commodore 64, divenne alla portata anche dei privati e non più solo delle aziende, molti adolescenti cominciarono a giocarci, imparando così le basi della programmazione.

E così, a metà degli anni Ottanta, alcuni studenti del primo anno di informatica si presentarono alle prime lezioni sorpendentemente già piuttosto ben preparati; spesso anche lamentandosi del fatto che i primi corsi del loro piano di studi fossero troppo “elementari”…

E non è un caso se quegli studenti così “avanti” rispetto ai loro coetanei di una manciata di anni prima fossero praticamente tutti maschi…

Uno studio importante

Jane Margolis (foto accanto), una ricercatrice dell’UCLA School of Education and Information Studies che ha dedicato la sua carriera al fenomeno della diseguaglianza e della discriminazione in ambito educativo e scolastico, nel 1994 venne chiamata dall’allora preside dell’indirizzo di scienze informatiche della Carnegie Mellon University di Pittsburgh, Allan Fisher, affinché lo aiutasse a comprendere perché, progressivamente, dopo l’apertura della facoltà di informatica nel 1988, l’università avesse visto diminuire rapidamente le studentesse iscritte a quel corso di laurea, fino a ridursi al di sotto del 10% del totale.

Per quattro anni, Margolis e il suo staff di ricercatori intervistarono un centinaio di laureandi d’ambo i sessi, analizzando la loro carriera accademica e i loro trascorsi personali, e al termine dell’indagine lei e Fisher condensarono il risultato dello studio in un libro (“Unlocking the Clubhouse: Women in Computing”) che venne pubblicato nel 2002.

Ebbene, in buona sostanza, il loro lavoro aveva dimostrato quanto abbiamo anticipato poco fa: le matricole della facoltà di informatica della Carnegie Mellon che potevano già vantare una buona esperienza al momento dell’iscrizione erano quasi tutti maschi. Questi ultimi avevano avuto senza dubbio molte più occasioni di cimentarsi con i computer rispetto alle ragazze, poiché molti di loro ne avevano ricevuto uno in regalo dai genitori negli anni precedenti; evento questo invece piuttosto raro per le ragazze.

Non solo, le interviste dimostrarono che pure nei casi in cui il pc era stato ufficialmente acquistato per tutta la famiglia, la maggior parte delle volte era stato collocato nella stanza del figlio maschio, o che comunque, all’arrivo del computer, padri e figli maschi avevano fatto squadra, cominciando a far pratica e a leggere manuali insieme e quindi imparando rapidamente il BASIC nel loro tempo libero (e di fatto occupando costantemente la postazione che, inevitabilmente, veniva molto meno frequentata da mogli e figlie).

E anche a scuola non era andata diversamente: quando i pc si erano diffusi anche all’interno degli edifici scolastici del nord America, i club studenteschi per appassionati di informatica erano diventati gruppi di “geek” riservati a maschi bianchi che riproponevano nei confronti delle ragazze e degli esponenti di altri gruppi etnici lo stesso meccanismo di esclusione che a loro volta subivano da parte dell’”elite” degli atleti.

E in Italia?

In Italia questo problema nelle scuole non lo abbiamo avuto – del resto, a distanza di oltre vent’anni dalla pubblicazione della ricerca della Margolis, all’interno dei nostri istituti scolastici consideriamo ancora un miracolo il fatto che ci sia un laboratorio di informatica con qualche pc di 2 o 3 generazioni precedenti a quelli in commercio attualmente -, ma per quanto riguarda l’ingresso dei personal computer nelle case, seppur con qualche anno di ritardo rispetto a quanto avveniva già nei primi anni Ottanta negli States, la dinamica culturale è stata fondamentalmente la stessa: pur se proposto spesso come strumento rivoluzionario per l’intera famiglia, il personal computer veniva visto come oggetto destinato soprattutto al giovane pubblico maschile.

Tornando allo studio condotto negli anni ’90 da Margolis e colleghi, alla luce dei dati raccolti appare abbastanza chiaro perché in quegli anni le donne abbiano cominciato a dubitare delle loro capacità e possibilità di carriera in campo informatico, dal momento che quando arrivavano all’università si ritrovavano automaticamente in difetto rispetto a un folto numero di coetanei che già il primo giorno di lezione possedevano solide basi di programmazione e tendevano a isolare e deridere chiunque non potesse vantare altrettante ore trascorse davanti allo schermo negli anni precedenti.

Disprezzo e stereotipi di genere

La stessa sorte, del resto, toccava agli studenti afroamericani o ispanici che non avevano avuto sistematico accesso ai personal computer prima di approdare all’università a causa della minor disponibilità economica delle loro famiglie.

Le ragazze che tentavano di colmare queste lacune facendo più domande in aula venivano prese di mira, derise. Molto spesso anche ignorate dai docenti, che taravano il passo delle loro lezioni sulla risposta degli studenti più preparati e bollavano come inadeguate le ragazze che approcciavano per la prima volta la programmazione. Fu così – hanno raccontato Margolis e Fisher – che molte delle studentesse della facoltà di informatica della Carnegie Mellon University cominciarono a ritirarsi fra il primo e il secondo anno di corso.

Riuscivano a superare il terzo anno quasi solo le ragazze disposte ad abbandonare qualunque altro interesse o svago per dedicarsi alla programmazione notte e giorno, in modo da recuperare quel gap di ore dedicate al BASIC durante l’adolescenza dai loro coetanei maschi.

E fin troppo spesso quelle studentesse non erano le ragazze più intelligenti del loro anno, né tantomeno quelle con il talento più spiccato per il coding, ma piuttosto quelle disposte a adeguarsi allo stereotipo dell’informatico solitario e senza orari che la cultura pop cominciò a diffondere anche al cinema e in tv proprio a partire dalla metà degli anni ‘80.

Uno stereotipo che per decenni ha tagliato le gambe a ragazze in gamba e talentuose, colpevoli solo di essere troppo lontane dall’immagine del nerd ossessivo e trasandato, incapace di sollevare gli occhi dallo schermo del pc e di “farsi una vita”, che per decenni si è sovrapposta a quella dello sviluppatore brillante, tanto da farle dubitare delle loro potenzialità e persino penalizzarle – quando intraprendevano comunque questo tipo di carriera – agli occhi dei responsabili delle Risorse Umane.

Pregidizi mainstream

Penelope Garcia, mente informatica dell’FBI in “Criminal Minds”

Pensateci: la cultura mainstream negli anni scorsi ha proposto il genio informatico femminile (così come le eccellenze femminili nelle altre aree STEM) quasi esclusivamente in veste di eccentricità o in associazione a qualche difetto caratteriale, a un’eccessiva scontrosità oppure a un modo di fare impacciato, proponendo personaggi talmente diversi dalle ragazze “normali” da rafforzare ancora e ancora l’idea che l’informatica non fosse cosa adatta a donne “normali”, o comunque non a quelle sobrie o, viceversa, a quelle particolarmente interessate al proprio aspetto; non a quelle equilibrate o socialmente ben introdotte; così come non a quelle che contemplassero fra le loro priorità la maternità o, più in generale, una piena vita famigliare…

Lisbeth Salander, geniale hacker protagonista della saga letteraria e cinematografica “Millenium”

Personalmente, ho l’impressione che fino a tempi molto recenti, dovendo parlare di “scienziate”, la fiction abbia consentito alle donne di apparire al meglio – quindi belle ma anche compassionevoli, intellettualmente brillanti ma dotate di sex appeal e persino madri risolte – quasi esclusivamente in ambito medico. A sottolineare, ancora una volta, come il “posto giusto” per il femminile debba sempre e solo coincidere con il concetto dell’“accudimento”, del “prendersi cura”, dell’“andare in soccorso”.

Ecco, in quel caso anche i personaggi femminili hanno avuto qualche chance di veder riconosciuta la loro autorevolezza scientifica e persino di essere celebrate con una narrazione favorevole, per lo meno in tv. Perché nella vita reale sembra ancora lontano il giorno in cui le donne riceveranno un trattamento equo – sia dal punto di vista economico sia, più in generale, in termini di opportunità di carriera – rispetto a quello riservato ai loro omologhi maschili.

E questo, purtroppo, continua a essere vero indipendentemente dal fatto che lavorino a un pc, in sala operatoria o nella sala di un ristorante.

Questo post è stato inizialmente pubblicato su https://www.linkedin.com/pulse/com%C3%A8-possibile-che-dopo-esserne-state-protagoniste-le-perrucci/

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